Al Teatro dei Documenti la “Psicosi” delle 4 e 48 o giù di lì…
Review Overview
Interpretazione
7Regia
7Drammaturgia
7Dal 2 al 4 maggio il testo simbolo di una delle autrici più amate degli ultimi tempi, Sarah Kane morta suicida a soli 28 anni
Il ritardo di circa unʹora causato da problemi tecnici alle luci, lʹattesa claustrofobica nel poco confortevole foyer del Teatro dei Documenti, le scale ripide e i soffitti a volta in un bianco freddo sono gli elementi scomodi e irritanti che sembrano fatti apposta per entrare nel giusto “mood” dello spettacolo; atteggiamento a cui ci invita la maschera mentre chiede gentilmente di spegnere i cellulari poco prima di entrare in sala.
In una scena fasciata da teli bianchi di plastica si vede una rete su cui poggia un materasso liso e sporco, una vasca da bagno, in fondo una luce gialla fioca e, quasi ovunque, delle macerie, simboli forse di un’anima e un corpo che non funzionano più.
Le macerie di una vita che non vuole più vivere.
È intorno a questo concetto che ruota il testo forte e doloroso dell’autrice britannica che si tolse la vita a soli 28 anni impiccandosi con i lacci delle sue stesse scarpe perché affetta da una grave forma di depressione.
“Alle 4 e 48 quando la disperazione mi fa visita mi impiccherò (…). Alle 4 e 48 quando la lucidità mi fa visita per un’ora e dodici minuti sono in me. (…). Alle 4 e 48 dormirò”.
Il titolo allude allʹora notturna in cui, secondo le statistiche, si registra il maggior numero di suicidi o, quantomeno il momento di maggiore attrazione verso il suicidio.
L’autrice non fornisce suggerimenti su come la scena vada realizzata ma libera semplicemente in un flusso di coscienza formule, espressioni, rimpianti, preghiere, invettive. Il monologo diventato ormai cult è da sempre un ambizioso esperimento con cui ogni attrice prima o poi spera di confrontarsi. Qui si vive una scena incredibilmente pacata e ispida al contempo, a rapide contorsioni del corpo ma anche a paralisi fisiche (e mentali…) evidentemente non in grado di sciogliersi.
A volte dialoga freddamente con la protagonista una voce fuori campo, probabilmente quella dello psichiatra di cui è innamorata. Ma non c’è vera comunicazione, non c’è un prendersi cura ma un curare con distacco attraverso somministrazioni massicce di prozac, zoplicone, lofepramina chi è ormai consapevole che “non c’è nessun farmaco sulla terra che può dare senso alla vita”.
Fra il pubblico c’è chi si commuove e c’è chi dorme esattamente come nella vita c’è empatia e indifferenza.
Miriam Larocca
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