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Cinespresso | April 26, 2024

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La Mujer del Animal: la schiava e la bestia

Marco Minniti

Review Overview

Cast
7
Regia
7
Script
6

Rating

Tra i più importanti registi del panorama colombiano, Víctor Gaviria racconta ne La Mujer del Animal l’odissea di una giovane nell’inferno di un quartiere popolare della Medellin degli anni ‘70, tra le violenze e i soprusi di un boss malavitoso che fa della ragazza la sua schiava. Una ricognizione durissima ed efficace, seppur narrativamente, a tratti, mancante di equilibrio.

Anno: 2016 Distribuzione: Unknown Durata: 116′ Genere: Drammatico Nazionalità: Colombia Produzione: Polo a Tierra, Viga Producciones Regia: Víctor Gaviria Uscita: Unknown

L’ultimo film di Víctor Gaviria mette in scena il viaggio all’inferno di una ragazza colombiana, resa schiava da un boss malavitoso, con qualche incertezza narrativa ma non mancando di un efficace sguardo semidocumentaristico

Medellín, anni ‘70, nel cuore di un quartiere popolare. La giovane Amparo, mandata a studiare in convento dalla sua famiglia, decide di fuggire dal rigido ambiente religioso, trovando rifugio a casa di sua sorella. Qui, la ragazza viene notata da Libardo, detto el Animal, un violento boss malavitoso che spadroneggia nel quartiere. Forte della paura e dell’omertà che serpeggiano tra la gente, Libardo rapisce Amparo e la porta a vivere con sé, facendone la sua amante e schiava. È l’inizio, per la ragazza, di un lungo incubo, fatto di violenze, soprusi e privazioni. Ma Amparo, ormai assuefatta alla violenza su di sé, riuscirà invece a difendere con le unghie e i denti l’unica cosa a cui tiene davvero, ovvero la vita della sua figlia appena nata…

Víctor Gaviria è da quasi un trentennio uno dei più significativi registi del panorama colombiano, autore di una produzione numericamente parca quanto significativa nei risultati (quattro film dal 1990 ad oggi, spesso passati in importanti manifestazioni internazionali). Proprio quest’ultimo La mujer del Animal, già presentato nell’ultima edizione del Toronto International Film Festival, è arrivato ora nella selezione principale della Festa del Cinema di Roma. Ed è, quello di Gaviria, un film che ha fatto molto parlare di sé, per il crudo realismo della sua messa in scena e per il modo immediato, programmaticamente e dolorosamente diretto, di rappresentare la violenza. Quello del regista colombiano è un occhio semidocumentaristico, che utilizza una fotografia piana, praticamente priva di filtri ottici e profondità di campo, per mettere in scena l’odissea di una ragazza in una comunità che ha eletto la violenza e il terrore a suoi principali riferimenti.

Gaviria è abile nel raccontare per immagini quello che è un vero e proprio viaggio all’inferno, scegliendo come sfondo (ma la definizione è più che mai riduttiva) la sgraziata e disadorna landscape di una moderna baraccopoli: qui, i legami primari convivono con l’omertà, e la forza normativa del terrore ha il sopravvento sulle strutture giuridiche organizzate. Un vero e proprio universo a sé, cresciuto all’interno di un moderno tessuto urbano, parallelo a quello borghese, messo in scena con uno sguardo quasi clinico: non c’è bisogno di marcati interventi di regia, di movimenti di macchina, di color correction, per rappresentare un non-luogo che può facilmente trasformarsi in un inferno. Basta porre la macchina da presa in loco e raccontare un po’ delle storie (ricostruite, ma non per questo meno autentiche) di chi in quelle strade di terra battuta, e in quelle baracche di lamiera, tuttora ci vive.

Forte della buona prova attoriale della protagonista Natalia Polo, ma soprattutto di quella sovraesposta e istintiva dell’Animal di Tito Alexander Gomez, La Mujer del Animal fatica tuttavia a reggere la sua estensione cinematografica (circa due ore) e soprattutto quella della sua vicenda (otto anni in tutto). La gestione dei personaggi, specie di quello della protagonista (vittima sacrificale, corpo da offendere più che carattere a tutto tondo) è all’insegna di un immobilismo che rende poco credibile la progressione narrativa del racconto; le ellissi temporali vengono gestite dal montaggio in modo poco convincente, arrivando a momenti di scarsa credibilità (ne è un esempio il parto della protagonista).

Il film, immobilizzato in un eterno presente (quello dell’inferno vissuto dalla protagonista) non prepara adeguatamente lo spettatore al climax e alla catarsi dei minuti finali, giunta in modo quasi inaspettato. Malgrado ciò, non si può non riconoscere a Gaviria di aver scelto il registro giusto per mettere in scena il suo inferno suburbano, dando al film una vitalità che (pur priva di abbellimenti estetici) mostra sullo schermo la sua indubbia efficacia.

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