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Cinespresso | April 27, 2024

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Intervista con Costanza Quatriglio e Alba Rohrwacher

Intervista con Costanza Quatriglio e Alba Rohrwacher
Francesco Di Brigida

Nel foyer del Nuovo Cinema Aquila abbiamo parlato con Alba Rohrwacher, protagonista di Con il fiato sospeso, e Costanza Quatriglio, regista e sceneggiatrice del cortometraggio presentato un mese fa a Venezia

Sono riservate e gentili fino a una sottile timidezza. Che la regista Costanza Quatriglio (regista e documentarista tra gli altri de L’isola, Raiz, Terramatta) mette da parte quando iniziamo a ragionare sul film, mentre ci stringiamo tutti e tre in un capannello per proteggere la registrazione dal vociare di un foyer ansioso di entrare in sala. Alba Rohrwacher invece (vincitrice di David di Donatello, Nastro d’Argento, Globo d’Oro e Ciak d’Oro rispettivamente con Giorni e nuvole, La solitudine dei numeri primi, Il papà di Giovanna e Cosa voglio di più), più abbottonata in una delicata energia tutta sua, nel corto intitolato Con il fiato sospeso è Stella, un personaggio inventato ma perfettamente verosimile. Stella lavora in un laboratorio chimico dove lo smaltimento delle sostanze tossiche è ben lontano dall’essere a norma. Emanuele Patanè, ricercatore catanese scomparso a 30 anni nel 2003 per un tumore polmonare contratto nei laboratori della sua università, è con il suo diario la fonte narrativa reale per questo film di denuncia. Piccolo quanto potente.

La prima presentazione a Venezia è stata un grande successo. Poi Catania, adesso Roma, e un cammino che sarà lungo. Vi aspettavate un’accoglienza del genere?

CQ: «Se posso dirlo sinceramente, si. Perché questo film è stato fatto in sordina, con molta difficoltà. Ma mentre lo giravamo ci siamo resi conto di quanto fosse giusto farlo. Abbiamo iniziato a condividerlo sempre di più con il pubblico. Perciò speriamo che continui così».

Come vi siete trovate, come vi siete scelte tra attrice e regista?

AR: «Dalla mia parte, Costanza mi ha chiesto di prendere parte a questo progetto. Mi ricordo una delle nostre prime chiacchierate, vicino a casa mia… Ti ricordi? (Rivolta alla regista, ndr). E da subito mi è sembrato importante che lei sentisse la necessità di raccontare questa storia. Mi sono sentita fortunata ad essere stata coinvolta da lei, perché quella sua necessità presto è diventata anche la mia. Anche le condizioni erano estreme, perché questo film, come ha detto Costanza, lo abbiamo girato veramente in sordina. Questo vuol dire che da una parte c’è stata grandissima libertà creativa, ma dall’altra anche limiti di tempo, cercando di organizzarci e di trovare modo per lavorare in queste giornate insieme. È stata un’esperienza molto bella».

CQ: «Ho riconosciuto Stella trovandola nelle vite e nelle esperienze di tanti ricercatori, di tanti studenti, come quelli che ho incontrato nel corso di questi anni di ricerca. Così quando ho immaginato Stella pensavo ad Alba. Era importante per me che lei entrasse in questo progetto, e che aderisse a questo sentimento. È stato un lavoro certosino perché questo tipo di narrazione richiedeva un surplus di esperienza, di ambienti e di conoscenza rispetto a ciò che bisognava raccontare. Cose che con Alba siamo riuscite a mettere in pratica».

E il tema trattato scotta senza dubbio. Da dove è nata la decisione di affrontarlo?

CQ: «Io l’ho scelto con molta semplicità quando ho saputo che erano stati chiusi questi laboratori della Facoltà di Farmacia dell’Università di Catania nel 2008. Ho conosciuto il diario di Emanuele, e mi è sembrato così naturale raccontare questa storia, che non mi sono posta il problema di farlo. Era per me sorprendente che ci fossero degli ostacoli a raccontare questa storia, perché neanche i giornali se ne occupavano. Quindi per me era davvero molto, molto naturale».

Quello che viene fuori dallo schermo è una ricerca visiva di fatti e personaggi quasi intrusiva. L’obiettivo è vicinissimo fino quasi a toccare fisicamente gli attori nei primissimi piani, come su Alba Rohrwacher. E poi diventa soggettive di occhiate veloci, come quelle sull’amica rocker, e ancora di più nel laboratorio. Colori acidi con una fotografia virata su un verde lieve e molto chimico, un po’ inquietante.

CQ: «La fotografia è di Sabrina Varani. È stata pensata perché restituisse l’artefatto. Da un lato la matericità, dall’altro la sensazione della chimica. Abbiamo lavorato molto per distinguere i singoli ambienti, e l’impatto con lo spettatore lo creiamo dall’inizio, con questo verde notturno che ricorda un po’ i visori delle guerre moderne. È come un avviso: “adesso stiamo entrando in una specie di campo minato”. Ed è così che iniziamo a sporcarci le mani. Il rapporto della macchina da presa invece, più che intrusivo è una messa in scena della relazione. Quella relazione imprescindibile attraverso la quale, facendo esperienza, si costruisce una drammaturgia. E quindi questa storia».

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