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Cinespresso | April 26, 2024

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Bahamuth e 7-14-21-28: Rezza, tra arte e autoanalisi

Bahamuth e 7-14-21-28: Rezza, tra arte e autoanalisi
Ireneo Alessi

Evoluzioni ed involuzioni di un artista in scena al Teatro Vascello di Roma con la sua “Antologia”

Prosegue tra alti e bassi l’antologia Rezza-Mastrella: alti come Bahamuth, bassi, profondi, come 7-14-21-28. È sorprendente dover constatare quanto alterno possa essere il sentiero dell’arte. In Bahamuth, del 2006, troviamo infatti tutto il Rezza più felice, capace di offrire contenuti intelligenti in una tessitura teatrale efficace, che pur rifuggendo la narrazione, per scelta deliberata (e/o per consapevolezza dei propri limiti), riesce a farsi coinvolgente racconto, cruda poesia dell’uomo e delle sue pochezze. In Bahamuth Rezza mette in scena personaggi carichi di grottesco, in un perfetto equilibrio tra la loro superficie comica sotto cui vive il tragico universo con cui sono costretti a fare i conti, considerando quanto questo super io che li avvolge li modifichi irrevocabilmente. Ecco comparire allora il nano “più basso delle sue ambizioni”, che, come sottolineano anche gli autori, parla alla luce e agisce nel buio, creando disagio; ecco l’ubiquitaria Signora Porfirio, o lo zio che in loop ripete la scena della morte, ecco Bahamuth, personaggio divino, misterioso, sfuggente, fecondo, tutti frutti dell’ironica visione del mondo (Weltanschauung se volete) del loro autore. In Bahamuth Rezza esprime delle idee (le ha), descrive con mano ilare e aggraziata il gioco spietato del consumo, la relazione complessa tra terreno, ultraterreno, sotterraneo.

Tre anni dopo, nel 2009, il crollo, con 7-14-21-28, e per risollevarsi ci vorranno tutta la magnifica simpatia vigile e il ritmo di Fratto X (2012), che sarà in scena al Teatro Vascello di Roma dal 7 al 19 gennaio.

In 7-14-21-28 le idee sono finite (non ci sono), si capisce anche da quante spiegazioni, quanta filosofia spicciola compaiono nella presentazione dello spettacolo, la cui complessità è inversamente proporzionale alla sua riuscita. Il Rezza meno felice, che senza sufficiente autoironia, e senza l’abituale ritmo scenico, riveste il ruolo di provocatore onnipotente, dà tregua al pubblico solo con la scena dei numeri, metaforica, simbolica, profonda o superficiale che fosse, in ogni caso divertente, “tutto il resto è noia” e a teatro la noia non è ammessa. 7-14-21-28 non ha l’energia degli altri spettacoli, sembra più una seduta di autoanalisi. Le ossessioni in scena hanno “tutto di personale”, la critica alla Chiesa, che certo è stata a lungo indifendibile sul tema della pedofilia, sono portate avanti con brutalità e parzialità, sono un invito alla violenza, hanno un sapore di inquietante nevrosi, di personali rancori, sono un appello alla mancanza di rispetto, anche perché spesso l’attacco è diretto a un Cristo e a un Dio di cui, ahinoi, la Chiesa (ma Rezza getta il bambino con l’acqua sporca) non è affatto lo specchio. Il tema della bestemmia, caro a Rezza, diventa allora uno show penoso, in cui il performer smette di essere artista, diventa cantore di un’aggressività preoccupante: intorno al luogo della sua bestemmia, magari non gradita a tutti, ma che poteva essere lasciata cadere lì, lui costruisce un anti-temenos, un recinto (dissacratore), la eleva a ideologia (e quanto intelligente può essere un’ideologia della bestemmia?!).

Il pubblico diventa, per l’artista (qui non più artista), ipocrita, perché non ripete con lui la tanto desiata bestemmia, che sembra il gioco, francamente povero, di un bambino che conosce per la prima volta una parolaccia. Nella guerra laica non c’è niente di meglio di quanto ci fosse e ci sia nelle guerre sante, ogni mancanza di rispetto per quelli che sono i sentimenti e le fedi altrui va condannata, anche se viene da chi stimiamo, come Rezza, che è un artista importante nel panorama culturale, che dà vita a un teatro di rottura, che quando vuole aggiunge e non toglie, che deve portare avanti la sua lotta per un miglioramento delle menti e delle mentalità, regalarci le sue scaltre e meravigliose provocazioni, ma domare la sua destrudo, accettare che gli altri possano pensarla diversamente da lui, non fare l’errore di quelli che, lui per primo, critica.

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