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Cinespresso | April 27, 2024

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Intervista esclusiva a Marco Visalberghi 2/3

Intervista esclusiva a Marco Visalberghi 2/3
Eugenio Murrali

Continua il racconto di Marco Visalberghi, produttore di Sacro Gra. In questa seconda parte ci rivela l’amore profondo nutrito verso alcuni dei suoi documentari e spiega come DOCLAB abbia potuto resistere e rinnovarsi.

Quali sono i tuoi “figli” prediletti?

Tra i documentari naturalistici, se dovessi “eleggerne” uno, probabilmente sceglierei La rivolta dei giovani leoni (1991). L’abbiamo girato in Patagonia e racconta di una colonia di leoni di mare che vive uno degli eventi più stupefacenti che mi sia mai capitato di vedere. Immagina questo: i maschi dei leoni di mare si accaparrano piccoli fazzoletti di spiaggia e attendono l’arrivo delle femmine per accoppiarsi.

Le femmine, che stanno per partorire il cucciolo concepito l’anno precedente, cercano la protezione dei maschi più forti, che hanno preso possesso dei territori centrali. I maschi più forti hanno il loro harem – che può raggiungere anche il numero di 10 femmine – e lo difendono strenuamente da una moltitudine di altri maschi sessualmente maturi, ma privi della corporatura necessaria a conquistarsi e proteggere un proprio harem. Un ricercatore argentino, Claudio Campagna, ha studiato un comportamento davvero incredibile: questi giovani maschi senza harem si riuniscono in una spiaggetta lì accanto, soprannominata ‘il club degli scapoli’. Nel giro di pochi giorni tutte le femmine gravide arrivano e si scelgono un harem dove partorire, sotto lo sguardo attento dei maschi dominanti che aspettano solo che le femmine siano pronte per l’accoppiamento.

Tra il parto e l’accoppiamento passano più o meno una settimana, poi esplode la stagione degli amori, l’odore dell’estro invade la colonia mentre i versi del corteggiamento risuonano alto sul rumore delle onde che frangono. Il gruppo dei giovani scapoli nuota lungo la riva avanti e indietro eccitato fino al parossismo dalla celebrazione degli amori da cui è escluso. Giorno dopo giorno gli scapoli crescono di numero, si eccitano gli uni con gli altri, i più spavaldi tentano di avvicinarsi alle femmine, ma vengono respinti. Poi quando la stagione degli amori raggiunge il suo picco, la voglia degli scapoli di accoppiarsi diventa incontenibile, riuniti insieme come una falange i giovani maschi tentano il tutto per tutto: invadono la colonia, cercano di rapire le femmine e di accoppiarsi.

Lo scompiglio è generale: i maschi dominanti non riescono più a trattenere le proprie femmine i cuccioli vengo travolti. Sono scene apocalittiche. Qualche scapolo riesce a rubare una femmina, altri, non riuscendo a rapire una femmina, prendono un piccolo, che hanno scambiato per una femmina, lo portano lontano e cercano perfino di accoppiarsi. Quando finalmente il raid finisce, gli scapoli si ritirano, lasciano una colonia che sembra un campo di battaglia: i piccoli strillano disperati in cerca delle loro le madri, i maschi cercano di ristabilire il loro dominio sul proprio fazzoletto di spiaggia e bloccano qualunque femmina si trovi a passare nei paraggi, mentre le femmine sono interessate solo a ritrovare il proprio cucciolo. Anche perché una madre non allatterà mai un piccolo che non è suo. Claudio Campagna ha calcolato che il 10% dei cuccioli muore a causa di questi raid.

Davanti a queste scene ho avuto l’impressione di vedere la selezione naturale all’opera: all’interno della stessa specie esistono tre strategie diverse e in un certo senso contrapposte. La strategia dei maschi adulti che hanno impiegato molti anni a raggiungere la stazza necessaria a conquistarsi un buon territorio: sanno che verranno scelti da diverse femmine per la loro capacità di proteggerle. Quella delle femmine il cui unico interesse è mettere al mondo i loro cuccioli e poterli allattare in tranquillità, per cui cercano i maschi più forti e capaci di assicurare la migliore protezione, purché non abbiano un harem già troppo affollato. E per finire la strategia dei giovani maschi: tagliati fuori per diversi anni dalla possibilità di accoppiarsi, giocano il tutto per tutto, organizzandosi in bande e sferrano attacchi disperati alla colonia. Tre strategie tra loro in conflitto che si modellano a vicenda alla ricerca di un nuovo equilibrio tutt’altro che facile da raggiungere. È una sorta di bolgia dantesca guidata da interessi evolutivi contrapposti, ma al contempo tutti sono intimamente legati dal fatto di dipendere dal successo evolutivo della stessa specie.

Alla fine, quando la calma torna a regnare nella colonia e i cuccioli sono pronti a familiarizzare con le onde, ecco arriva una famiglia di orche. L’acqua è torbida, soprattutto lungo la costa, dove le onde frangono e dove i nuovi nati fanno le loro prime esperienze. Le orche però hanno un udito finissimo e riescono a percepire, nel fragore delle onde che si infrangono, il sibilo delle pinne dei giovani leoncini. Guidate dal solo udito, le orche si lanciano a tutta velocità verso la spiaggia e afferrano i malcapitati proprio quando stanno per raggiungere la salvezza della colonia. Uno spettacolo per me indimenticabile.

In anni più recenti, invece, ho amato molto, come regista, Nati per volare (2007), e, come produttore, sono molto legato al film su Falcone e Borsellino: In un altro paese (2005) per la regia di Marco Turco. Un film che ha avuto un certo successo, ma che soprattutto aveva una forza incredibile.

In questo caso si tratta di un film, non di documentario…

Io ritengo che il documentario sia una delle possibili coniugazioni del cinema. In questo caso ho detto film perché il documentario aveva una lunghezza cinematografica, che gli ha permesso una circolazione nelle sale cinematografiche.

Come DOCLAB oggi voi esistete e resistete in un momento catastrofico. Come riuscite?

Come mia tendenza personale, ho sempre cercato di scegliere le storie da raccontare in funzione di un pubblico potenziale che avesse voglia di vederle. Normalmente ho prediletto il pubblico televisivo in quanto, per il numero di spettatori, ma anche per le occasioni che offrivano di raccogliere i finanziamenti necessari -almeno così era in passato-, le televisioni permettevano di produrre i documentari che volevo. Penso che chi fa documentari sia un mediatore che si appassiona a una storia che vuole raccontare al numero più ampio possibile di persone. Il documentarista deve quindi essere disposto, pur di raccontare la sua storia, a usare gli stilemi narrativi che permetteranno di comunicarla al pubblico più ampio.

Oggi tutto questo è sempre meno vero, i prodotti televisivi di tipo documentaristico sono sempre meno e relegati in orari marginali, raggiungono meno pubblico e ottengono di conseguenza finanziamenti sempre più limitati: la televisione da ‘mamma buona’ sta diventando una ‘mamma matrigna’ che ha pochi spazi, pochi soldi, e che preferisce altri prodotti, i factual per esempio, ovvero strutture narrative seriali, semplificate e ripetitive che poco hanno a che fare con quello che io considero essere la profondità di analisi del documentario.

D’altro canto è anche vero che, televisioni a parte, c’è un’esplosione di produzione documentaria, spesso di buon livello, che è difficile capire come sia in grado di finanziarsi. È come se ci fosse da un lato una generazione di autori disposti a qualsiasi sacrificio pur di raccontare la loro storia e dall’altro un pubblico strano, che non si capisce ancora da chi sia composto e intorno a cosa si riunisca, forse nemmeno più intorno alle reti televisive, forse è aggregato in parte nei festival, in parte nei cineclub, mentre nel frattempo internet scompagina ogni cosa riaggregando il mercato, la produzione e il pubblico secondo logiche tutte nuove.

Sì, è particolarmente difficile sopravvivere oggi, tutti coloro che si muovono in questo campo dicono: «Fino a oggi ci sono arrivato, a domani forse ci arrivo, dopodomani nessuno lo sa». Dopodomani credo che sarà tutto molto diverso, internet capovolgerà tutti i criteri di finanziamento e di produzione, ma anche i criteri narrativi verranno capovolti, perché non credo che la rete sarà in grado di creare un mercato adatto ai documentari per come sono concepiti oggi. Non so dirvi se sarà necessariamente migliore o peggiore, certo sarà diverso: più variegato innovativo e forse anche più democratico, così almeno mi piace pensare che sarà il mercato del documentario per le generazioni di ‘documentaristi’ (o se preferite di autori del ‘cinema del reale’), che verranno.

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