Al Teatro dell’Orologio, Licia Lanera con 2 (Due)
Review Overview
Interpretazione
6.5Regia
6.5Drammaturgia
6.5“L’horror teatrale” di Fibre Parallele scritto nel 2008
Lei è già in scena, di spalle, immersa in un bianco immacolato, canticchia “Cocktail d’amore” e soffia bolle di sapone nell’aria, appoggiata al bordo di una vasca la cui immagine riflette in uno specchio disposto poco più in alto. Unica macchia di colore, il rosso delle sue unghie che, non appena si volta, si staglia netto in mezzo a tutto quel candore. La sua andatura è incerta mentre avanza gravando su tacchi vertiginosi, il suo sguardo, al contrario, è fermo e deciso, e si posa, senza alcuna esitazione, non appena incontra quello degli spettatori.
Lei, è Licia Lanera della Compagnia Fibre Parallele, in scena al Teatro dell’Orologio con “2 (Due)”. Ispirato a fatti di cronaca mescolati a episodi autobiografici, “2 (Due)” è uno spettacolo la cui visione assomiglia a un momento di zapping televisivo, quasi fosse una crasi scenica fra una puntata di “Un giorno in pretura” e una di “Quarto grado”.
La protagonista ci racconta, con voce cantilenante e sonnolenta, la sua storia d’amore con Luca, finita dopo la rivelazione shock da parte del ragazzo della sua omosessualità. Lei non riesce a sopportare l’idea che tutto ciò in cui aveva creduto, all’improvviso possa svanire: un matrimonio, dei figli, il televisore al plasma. Così, lo uccide, in cucina, durante un pranzo.
Sospese in aria, tre sacche legate a catenelle metalliche, vengono bucate lentamente attraverso uno spillo fino a quel momento, inquietantemente poggiato sul petto dell’attrice e, da esse, fuoriesce un liquido denso e rosso. L’uso del sonoro crea un sottofondo di rumori graffianti, disturbanti. L’amplificazione fa rimbombare nelle orecchie il suono denso del “sangue” che gocciola lento, inesorabile, sul tappeto bianco. In una visione scenica letteralmente pornografica, la pièce si concentra sui dettagli dell’omicidio traducendo bene quell’ipertrofia comunicativa del crimine a cui siamo fin troppo esposti.
“Il vero racconto riguarda un momento, quello del forchettone che la donna pianta nel collo dell’amato, senza pietà alcuna: inizia così la lotta esasperata tra la vita e la morte, che si conclude con l’annientamento finale. Lei non risparmia un dettaglio dell’assassinio; con brutale lucidità ricostruisce le sensazioni, le immagini, i respiri agonizzanti della vittima, le sue ultime forze, gli occhi vitrei”, leggiamo ancora dalle note di regia: “La recitazione è abolita: il testo, scomposto e sincopato, viene trasmesso attraverso una robotica sonnolenza, algida e asettica. L’uso del microfono rende ancora più dichiarato questo straniamento. Una sorta di incubo splatter costruito sui brutali racconti di noti assassini, uno fra tutti Luigi Chiatti. Ci ha colpito la loro lucidità nel raccontare degli eventi così gravi, la loro leggerezza, l’inconsapevolezza infantile, di fronte agli occhi attoniti dei parenti delle vittime”.
Una drammaturgia in stretta relazione con la contemporaneità che si preoccupa di descrivere, con una scrittura essenziale, un momento di follia attraverso il dramma di una donna abbandonata divenuta, in un breve raptus di delirio amoroso, una macabra assassina.
Con la morte lenta dell’uomo arriva un apparente sollievo, la pace, ma anche quella consapevolezza che spinge la donna a porre fine alla sua stessa esistenza annegandosi dentro una vasca. E, il racconto della cronaca, innegabilmente strumento di eccitazione e morbosità del pubblico, non può non colpire anche sulle assi di un palcoscenico. Forse per questo l’attrice cerca più volte lo sguardo degli spettatori, responsabili e complici di un voyeurismo fin troppo dilagante.
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