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Cinespresso | April 19, 2024

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La verità negata: processare la storia

Marco Minniti

Review Overview

Cast
7.5
Regia
6.5
Script
7

Rating

Con La verità negata, Mick Jackson torna alla regia dopo quasi un quindicennio, con un vigoroso dramma processuale incentrato sul tema del negazionismo della Shoah: malgrado qualche, limitata, caduta di tono, il registro è equilibrato e all’insegna della forza divulgativa, retto da un’efficace messa in scena e da tre notevoli interpreti, con in testa un inquietante Timothy Small.

Anno: 2016 Distribuzione: Unknown Durata: 110′ Genere: Biografico, Drammatico Nazionalità: Usa, Gran Bretagna Produzione: BBC Films, Krasnoff, Foster Entertainment Regia: Mick Jackson Uscita: 17 Novembre 2016

Il ritorno alla regia di Mick Jackson fonde il genere processuale col film di denuncia sull’Olocausto, ricostruendo con vigore, e con la giusta forza spettacolare, un processo dalla fondamentale valenza etica e storica

1994: durante la conferenza stampa di presentazione del saggio “Denying The Holocaust”, scritto dalla storica Deborah Lipstadt, prende la parola a sorpresa John Irving, noto negazionista della Shoah, già autore di libri e conferenze tesi a negare la realtà storica dell’Olocausto. L’uomo, le cui posizioni erano state duramente attaccate dalla Lipstadt nel suo libro, accusa apertamente l’accademica di averlo diffamato, promettendo di portare le sue ragioni in tribunale. Poco dopo, Deborah Lipstadt viene citata in giudizio da Irving presso un tribunale di Londra: la sede non è stata scelta a caso da Irving, visto che, secondo il codice penale inglese, l’onere della prova in un processo penale spetta alla difesa. Il processo, che si articolerà lungo i sei anni successivi, si trasforma così in una dettagliata ricognizione storica, volta a ribadire con gli strumenti dell’analisi storiografica l’autenticità di una delle più grandi tragedie che la storia del genere umano ricordi.

Stupisce un po’ il tono, ma soprattutto la qualità, di questo La verità negata, ritorno alla regia dopo quasi un quindicennio di Mick Jackson (suoi furono i blockbuster Guardia del corpo e Vulcano – Los Angeles 1997). Stupisce perché il film, presentato in anteprima nell’edizione 2016 della Festa del Cinema di Roma, e ispirato al reale processo che vide opposti l’accademica Deborah Lipstadt e il negazionista John Irving, è un interessante dramma che fonde, non senza intelligenza e misura, il filone del dramma processuale con quello del film sull’Olocausto. Un’operazione non semplice, dato il carattere ampiamente codificato dei due generi, e dato anche il forte rischio-retorica che un’operazione del genere comportava: nonostante questo, il film di Jackson ha il vigore e la forza divulgativa del miglior cinema d’impegno civile, uniti a una sempre presente attenzione alle componenti spettacolari, espressa in un efficace climax emotivo.

Trattare al cinema nel 2016 (di nuovo) un tema come quello della Shoah, e approcciarlo dal punto di vista (che ripugna giustamente ai più) del negazionismo, non è compito semplice: la sceneggiatura, tuttavia, articola efficacemente il racconto sul dualismo dei punti di vista (da una parte quello emotivo e idealista della Lipstadt, dall’altra quello più razionale e asettico, volto unicamente a portare a casa il risultato, grazie agli strumenti della scienza processuale, del suo avvocato), descrivendone puntualmente le ripercussioni emotive; e mantenendo una giusta equidistanza nella valutazione, oltre a un equilibrio che non significa freddezza, che sono merce rara in un prodotto per il grande pubblico. Un confronto che si fa esplicito in una delle sequenze più significative (e problematiche) del film, quella della visita del collegio difensivo nel campo di concentramento di Auschwitz.

La verità negata deve gran parte della sua riuscita alla buona qualità della sua scrittura, e a tre notevoli interpreti (oltre a Rachel Weisz e Tom Wilkinson, rispettivamente nei ruoli della scrittrice e del suo avvocato, va segnalato un luciferino e istrionico Timothy Spall nei panni di Irving); ma il suo impatto cinematografico si sostanzia anche in una messa in scena attenta, organizzata in un ritmo serrato che fa un efficace e intelligente uso del montaggio (specie nelle sequenze processuali). Non mancano i difetti, in quelle poche sequenze in cui la regia deraglia attraversando i territori del kitsch (la brevissima parentesi onirica che coinvolge la protagonista durante il processo, il troppo enfatico pre-finale); mentre il tema della decisione (sofferta) di non dare voce durante il processo ai superstiti, non trova l’approfondimento che avrebbe meritato. Ma la capacità del film di ricostruire un processo che ebbe un peso ben superiore a quello di una mera causa per diffamazione, insieme al clima che lo accompagnò, resta innegabile e preziosa.

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