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Cinespresso | April 25, 2024

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Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet: l’altra Frontiera

Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet: l’altra Frontiera
Marco Minniti

Review Overview

Cast
7
Regia
7
Script
6.5

Rating

Con Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet, Jean-Pierre Jeunet riporta sullo schermo il suo mondo, colorato e fumettistico, ispirandosi stavolta a un romanzo dell'americano Reif Larsen. Un'opera che irride (con affetto) l'epica del road movie e del western, mostrando una Frontiera a rovescio nel viaggio di un piccolo nerd improbabile e geniale.

Anno 2013 Distribuzione Microcinema Durata 105′ Genere Avventura, Drammatico Nazionalità Francia   Produzione Gaumont Regia Jean-Pierre Jeunet Uscita 28 Maggio 2015

Jeunet confeziona con gusto tipicamente europeo un film che capovolge l’epica americana del viaggio e della Frontiera

T.S. Spivet ha dieci anni, la mente di un genio e una famiglia sui generis: suo padre, proprietario del ranch nel Montana in cui la famiglia vive, è un cowboy geloso delle vecchie usanze del West, evidentemente nato nel secolo sbagliato; sua madre, un’appassionata di morfologia degli insetti, capace di recitare a menadito nomi di specie e sottospecie, e di perdersi per giorni dietro l’esatta catalogazione di un esemplare; sua sorella, un’adolescente collerica convinta di avere un grande talento nel canto e nella recitazione, che sogna di diventare Miss America. Nel passato recente di T.S., però, c’è anche la tragedia: la morte accidentale di suo fratello gemello Layton, copia in piccolo di suo padre, vittima di un colpo partito da un fucile lasciato incustodito. T.S., da par suo, si diletta ad occuparsi di cartografia e invenzioni: proprio grazie ad una di queste, il ragazzino riceve una telefonata dallo Smithsonian Institute di Washington, che gli annuncia la vittoria del prestigioso premio Baird. Tenendo, per il momento, celata la sua età, T.S. decide così di imbarcarsi in un lungo viaggio da un capo all’altro dell’America, per ritirare personalmente il premio e tenere il suo discorso di ringraziamento.

Per riportare sullo schermo il suo mondo, sempre ricco, fantasioso ed iperrealista, Jean-Pierre Jeunet decide stavolta di adattare un romanzo dell’autore americano Reif Larsen, datato 2010 e intitolato Le mappe dei miei sogni. L’ambientazione statunitense non cambia, nella sostanza, la poetica del regista, che prende il più classico dei racconti di viaggio e formazione per innestarvi il suo gusto per il grottesco, per la satira stralunata e sopra le righe, per un’estetica barocca, surriscaldata e un po’ fumettistica. Un mondo, quello di Jeunet (che si identifica di volta in volta con quelli dei vari Amelie, Bazil, e ora con quello del piccolo T.J.) che vede il modo in cui le storie sono messe in scena contare quasi più dei soggetti stessi, in una dialettica in cui i racconti sono innervati (in modo decisivo) dalla vena immaginifica del regista. Una scelta pericolosamente ai confini del formalismo, che tuttavia si è rivelata vincente, finora, grazie all’innegabile gusto visivo di Jeunet, e alla scelta di soggetti sempre capaci di incuriosire, e di rappresentare in nuce piccole ossessioni e deviazioni della contemporaneità.

Questa volta, il regista prende di petto, dissacrandola ed irridendola, tutta l’estetica del road movie e del western, l’epica americana del viaggio e quella della Frontiera, qui rovesciata persino geograficamente (il viaggio di T.S. è diretto ad est, e ha come meta i grattacieli di Washington). Il regista sorride (pur con affetto) di tutti gli stereotipi delle grandi narrazioni americane, presentando un personaggio caricaturale nella figura del padre del protagonista, e introducendo quest’ultimo come una sorta di alieno, in un contesto che non potrebbe essere da lui più distante.

Con gusto tipicamente europeo, Jeunet carica in modo iperrealistico i toni della fotografia (laddove il canone vorrebbe un look polveroso e stropicciato), e sottolinea con divertimento le tappe di un viaggiatore che da un mondo fuori dal tempo si muove verso la modernità. La sua descrizione perde un po’ di forza quando, nei minuti finali ambientati a Washington, c’è da tirare le somme della storia: qui, la satira e la dissacrazione cedono il passo alla morale, e la riaffermazione dell’unità familiare (con annesse, appena accennate riflessioni sulla società dello spettacolo e sull’uso delle armi) è leggermente posticcia. Dazio, forse inevitabile, pagato ai contorni del soggetto; che tuttavia non inficia la freschezza del prodotto nel suo complesso.

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