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Conversazioni ‘possibili’ al Teatro Quirino con “Il Visitatore”

Conversazioni ‘possibili’ al Teatro Quirino con “Il Visitatore”
Redazione
  • On 2 dicembre 2014
  • http://www.cinespresso.com

Review Overview

Interpretazione
8
Regia
7
Drammaturgia
7

Rating

Una commedia dal forte valore metastorico, dalle note di regia: “Da molto tempo la drammaturgia contemporanea ci ha abituati a pensare che le parole non servono più a niente. Che l’umanità è immersa in un buio silenzioso e che nessun dialogo è più capace di “dire” veramente qualcosa. (...) Autori come Schmitt, invece, sono andati fieramente in tutt’altra direzione. Hanno continuato coraggiosamente a testimoniare una cieca fiducia nelle parole e una specie di devozione per l’umana dote del dialogo”.

Valerio Binasco firma la regia, curandone anche traduzione e adattamento, de “Il Visitatore” commedia del 1993 del drammaturgo e scrittore belga Éric-Emmanuel Schmitt, vincitore di ben tre premi Molière per il teatro

È probabile che ogni essere umano, almeno una volta nella vita, si sia rivolto a Dio nei momenti più tristi e drammatici della propria esistenza per chiedere aiuto, per consolarsi, per trovare un senso; questo forse accade persino a Sigmund Freud, uno dei più grandi teorizzatori della non esistenza di Dio, secondo il testo drammaturgico di Éric-Emmanuel Schmitt, riproposto in queste sere a Roma, al Teatro Quirino con la regia di Valerio Binasco.

Per Sigmund Freud, Dio è una proiezione dell’immagine del Padre che sin da bambino l’uomo vede come rivale desiderandone l’eliminazione fisica, ciò provoca un senso di colpa a cui la religione presto servirà come consolazione. Il cristianesimo con il suo compromesso, rappresenta una delle religioni che funzionano al meglio per liberare l’uomo dalla colpevolezza, in ogni adulto vi è in effetti un bambino da consolare.

È una notte del 1938 nel suo studio al 19 di Berggstrasse a Vienna, Freud torna ed essere un bambino da consolare. La Gestapo gli ha appena portato via l’adorata figlia Anna, forse per sempre. All’improvviso un visitatore misterioso si palesa di fronte ai suoi occhi: è Dio! O forse è un pazzo scappato da un manicomio? Oppure è un pazzo che si crede Dio? Forse addirittura è Dio che è impazzito? Non è importante, ciò che colpisce è il dialogo paradossale a colpi di dogmi che ne scaturisce, a tratti ironico, a tratti rivelatore. C’è un uomo che ha preso coscienza di sé a 5 anni e uno che non ha mai potuto porsi il quesito.

C’è il padre della psicanalisi che vuole credere a ciò in cui non crede, c’è per un momento il suo abbandono a lasciarsi guidare, ci sono le sue domande e addirittura, come un credente qualunque, la richiesta di un miracolo. C’è la confessione di Dio che dichiara la noia del suo ruolo, la tenerezza che nutre nei confronti dell’essere umano nel pretendere di svelare ogni cosa, il piacevole stupore che avverte quando ascolta Mozart.

Dio che per una volta, invece di essere invocato, sceglie l’interlocutore, guarda caso proprio mentre Freud sta per completare il suo “L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, insomma, ironicamente, un’ispirazione non richiesta per la sua prossima opera. Dio sceglie l’interlocutore apparentemente più riluttante, e nell’inevitabile, e a volte tragicomico, scambio dei ruoli sulla poltrona del paziente, scorre un confronto sull’inestricabile questione tra l’essere creatura dell’uomo e la sua possibilità di perdersi, tra l’incomprensibile disegno e quella che forse è solo la pietà e la tenerezza di un padre verso un figlio che per quanto in possesso di strumenti che lo fanno presunto padrone della natura e della vita, resta nella prospettiva di chi è senza tempo, pur sempre un bambino che continua a chiedere aiuto in una casa vuota senza nessuno che possa ascoltarlo.

Binasco sceglie due figure importanti, Alessio Boni – che ci sia concesso, recita da Dio… e Alessandro Haber nei panni di un Freud vecchio, stanco e malato – insomma un povero diavolo – professionalmente preoccupato prima di far girare il meccanismo del regista e del testo e poi di sottolineare la propria presenza in scena. La figlia (Nicoletta Robello Bracciforti) e il caporale della Gestapo (Alessandro Tedeschi) entrano ed escono quasi come brevi intervalli, per lo più ironici, a ricordarci la presenza di una scenografia che fa della semplicità la sua funzione più precisa, quella di una scena che potrebbe accadere in una casa qualunque in cui Dio decidesse una notte di andare a scambiare due chiacchiere con un vecchietto irriducibile, nonostante o forse proprio perché quest’ultimo nel corso della sua esistenza – come amaramente recita la battuta finale – Lo ha mancato…

Miriam Larocca

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