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Cinespresso | March 28, 2024

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Incontro con Uberto Pasolini, il regista di Still Life 2/2

Incontro con Uberto Pasolini, il regista di Still Life  2/2
Francesco Di Brigida

La seconda parte della conferenza stampa di Uberto Pasolini per il suo film con Eddie Marsan

È già alla sua terza vita Uberto Pasolini, italiano a Londra, autore di Still Life, e precedentemente di Machan. Quella di regista e sceneggiatore è nota, ma nel suo passato pre-cinematografico è stato un banchiere, dopodiché ha iniziato a produrre film come Full Monty, Palookaville e Bel Ami. Poi il salto dietro la macchina da presa. Si è svolta a dicembre a Roma la .presentazione del suo ultimo lavoro, nell’occasione di una conferenza stampa dove alla presenza di Cecilia Valmarana, producer di Rai Cinema, ha ricevuto un ambito premio della critica, il Pasinetti per il miglior film. Dopo aver raccontato nella prima come sia nata la sua pellicola, nella seconda parte dell’incontro con i giornalisti ha parlato della sua idea di cinema, del suo protagonista Eddie Marsan e di come certe volte la vita e il lavoro si leghino intorno a un film.

Cosa l’ha convinta a fare questo film?

«È una scusa di ricerca su realtà sociali molto diverse dalla mia. Sono cresciuto da straprivilegiato fin da quando sono nato, e trovo il mio background di nessun interesse forse perché lo conosco troppo bene. Faccio cinema da trent’anni. Ho fatto prima il banchiere. Con Full Monty e con Machan il processo di ricerca che anticipa la sceneggiatura era un metodo di conoscenza di realtà per me aliene. Il primo ad esempio raccontava la storia di un capofamiglia che perde il lavoro. Tutti ricordano lo spogliarello, ma Full Monty era un film tristissimo. Mio padre mi diceva che era il film più triste che avesse mai visto. E aveva ragione, perché aveva colto quello che era il suo vero soggetto. Io non mi sono mai posto il problema di non avere un lavoro, ma sono entrato in contatto con situazioni del genere. Machan invece vuole capire perchè la gente lascia il proprio paese, gli amici, la propria cultura per arrivare nel nostro mondo occidentale che promette un futuro forse migliore. Quando ero in Australia lessi un articolo sull’immigrazione che mi diede lo spunto per riflettere e il film nacque così. E per Still Life invece sono stato colpito da quest’immagine: un funerale dove non c’è nessuno presente. Non so se ve lo chiedete mai, ma io mi sono chiesto “chi verrà al mio funerale?” È una cosa che colpisce e fa pensare. Ma la vera curiosità non era questa, bensì la realtà sociale dell’isolamento. Viviamo in grandi città dove isolarsi sta diventando una cosa sempre più prevalente, tra gli anziani come tra i giovani. Una volta c’erano tre o quattro generazioni che vivevano tutte sotto uno stesso tetto, una realtà quasi scomparsa dal mondo occidentale. Inoltre il senso del buon vicinato è una pratica che non si usa più. Prima di fare il film non conoscevo i miei vicini di casa, infatti. Il suo piccolo risultato è che ora frequento sia il vicino della casa sulla destra che quello della villa di sinistra. Loro non sanno perché… forse è meglio che non glielo dica, ma mi ha cambiato la vita. I giovani invece hanno amicizie virtuali grazie a internet, ma non hanno un vero valore. Dalla ricerca sociale per Still Life ho tratto anche un’utilità più personale proprio perché negli ultimi anni sono separato da mia moglie, anche se la vedo due volte al giorno: ha anche composto le musiche del film, come pure di molti altri fra i miei. Vedo le mie figlie spesso. Ho una vita molto unita alla famiglia dalla quale sono separato, ma da cinque anni a questa parte ho delle serate, per la prima volta in trent’anni, nelle quali entro in una casa buia, vuota e silenziosa. Il film così è anche un’analisi personale sul cosa vuol dire essere soli».

Qual è stato il lavoro attoriale svolto con il protagonista?

«È un film dai toni bassissimi: sotto volume. Amo tutto il cinema, ma molto spesso mi parlano di più i bassi toni. C’è poca musica, almeno esce fuori soltanto a un certo punto della storia, la macchina da presa è quasi sempre immobile con inquadrature simmetriche. La fotografia stessa parte da una bassa saturazione che poi prende corpo. E una modulazione di toni bassi è nella recitazione del protagonista. Ho lavorato con Eddie Marsan otto anni fa per un piccolo film che era I vestiti nuovi dell’Imperatore. Qui Marsan aveva il ruolo del valletto di Napoleone, con sei battute e tre scene. Gli erano bastate non solo per dare rotondità e complessità al suo valletto, ma nel modo in cui ci aveva lavorato aggiungeva una qualità umana all’Imperatore che da solo non avrebbe avuto. Fu affascinante. Non ero il regista, ma il produttore, e con somma disperazione del regista ero sul set tutti i giorni. Per questo pensai a Eddie appena venne fuori la storia di Still Life. Lui è un attore che dà enormemente facendo pochissimo, o meglio quello che sembra fare pochissimo. Molto contenuto, ma molto forte emotivamente. È conosciuto in Inghilterra per ruoli più forti e drammatici, ma l’ho scelto per la sua sottigliezza di talento e sensibilità straordinari».

In Still Life ci sono alcune somiglianze con L’inquilino del terzo piano di Polanski. Sono citazioni o omaggi?

«È un film molto speciale che non vedo da molto tempo, ma mi angosciò molto quando lo guardai. Devo confessare che non sono riferimenti voluti, forse sono inconsci. La cinematografia che ho guardato di più nella lavorazione è quella di Ozu. Una visione molto pacata, contenuta nel raccontare storie di tutti i giorni, ma insieme fortissima. Il mio film non pretende di essere neanche ispirato da Ozu perché lui vive su un altro pianeta, però quello che mi ha dato è la speranza di riuscire a colpire lo spettatore attraverso una grammatica a basso volume. Trovo sia facile farlo con forza. Ma sono anche convinto che sia un metodo così alieno alla nostra vita che la realtà, che è molto più sottotono, faccia dimenticare più facilmente ciò che è stato visto in sala».

Sembra che nel film si dia un’accezione negativa alla cremazione.

«No. Quella del film è una realtà pratica. Almeno in Inghilterra se non si hanno altre indicazioni si tende a cremare. L’intenzione non è assolutamente quella di dare più o meno importanza a uno o l’altro modo di sepoltura. Sono stato a funzioni dove veniva messa l’ottava cassa in una fossa comune, come in altre dove si riunivano le ceneri di più persone dopo qualche mese».

Uno dei temi dei suoi film è “una vita migliore”. Quanta pietas c’è in questo?

«Nel film c’è un personaggio che ha pietas verso gli altri, ma non verso sé stesso. Io invece ce l’ho per lui, così vorrei dargli una vita migliore. Ha un percorso di apertura, di scoperta. Passare dal thè alla cioccolata sarà il suo primo passo. Invece il valore di una società si può vedere da come tratta gli individui più deboli. E chi c’è di più debole di un morto, che non può neanche difendersi? In Inghilterra adesso i pasti caldi serviti ai cittadini più poveri sono stati tagliati del 50% per via dell’aumento dei prezzi. Non è solo dimezzata la razione dei pasti, ma anche quella di contatto umano per l’incontro in quel momento. In Inghilterra il debole è abbandonato a sé stesso. In Italia non so».

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