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Cinespresso | April 25, 2024

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“White God” di Mundruczo vince la sezione Un Certain Regard

“White God” di Mundruczo vince la sezione Un Certain Regard
Cristina Mancini

Review Overview

Cast
10
Regia
9
Scrip
10

Rating

Un film che emoziona, parla al cuore e lo fa senza mezzi termini dosando crudeltà e tenerezza. Un film sulla Natura, il senso della vita e della morte. E sull'incredibile mondo dei cani.

Anno: 2014 Distribuzione: The Match Factory Genere: Drammatico Paese: Ungheria Regia: Kornél Mundruczó Produzione: Proton Cinema Uscita: Unknown

Un grande film che è la metafora della marginalità e dell’esistenza, uno sguardo di pietà e commozione sul pianeta “cane”

Ha conquistato la giuria del 67°Festival di Cannes e ha fatto piangere il pubblico in sala alla cerimonia di premiazione per il miglior film della sezione Un Certain Regard. White God titolo originale Fehér Isten del giovane regista ungherese, Kornél Mundruczó, che dal 2000 ha già sfornato cinque lungometraggi merita di essere visto e distribuito nelle sale perché parla di animali, di razze superiori, intese come razze canine, della crudeltà e avidità degli uomini e dell’amore di una ragazzina per il suo Hagen, un meticcio dagli occhi umani.

Ambientato e girato a Budapest ai nostri giorni, il film racconta cosa accade quando la stupidità umana impone leggi e tasse sugli animali “bastardi”, quelli che non hanno il pedigree, che nascono senza certificato e che nei Paesi evoluti, quando sono fortunati finiscono nei canili abbandonati. Immaginate cosa si prova a essere un cucciolo cresciuto scaraventato sulla strada, o cosa significa per una ragazzina di 13 anni, Lili (Zsófia Psotta) vedere il padre separato (Sàndor Zsótér) che senza riguardo si sbarazza del cane. Immaginate, e qui non si tratta di fantasia ma purtroppo di realtà, quanti cani finiscono nel giro dei combattimenti clandestini, drogati e allenati come i peggiori degli atleti per diventare aggressivi. Quanti finiscono nei canili, nella civile Europa, dove sono soppressi perché figli di nessuno. Quanti altri finiscono nel traffico illegale della malavita, trasportati come carne da macello. Ecco, se questo v’incuriosisce guardate il film di Kornél Mundruczó, che non è una favola di Walt Disney ma la metafora della marginalità e della Natura. Ne uscirete cambiati perché s’impone allo spettatore una riflessione morale molto seria e degna di essere valutata.

Il film è molto bello. Emozionante. Non nasconde le atrocità fatte dagli uomini sugli animali, ma sa dosare la tenerezza di una ragazzina che studia musica in un’orchestra e si affaccia ai pericoli della vita, con tensione delle fughe del branco di randagi, i loro sguardi dolci davanti alla morte, il senso di aiuto verso i propri simili. Si ha molto da imparare dagli animali confessa lo stesso regista: “Per me è stata un’esperienza terapeutica, ha significato incontrare una parte immensa dell’Universo, qualcosa di più grande di me, è stata una bella prova di cooperazione tra due specie, i cani sono diventati attori e gli attori cani”. Infatti, i veri protagonisti sono proprio loro, una flotta di batuffoli colorati, tanti, tantissimi (oltre 250 sul set) che lottano, fuggono, giocano per tutto il film. La cosa straordinaria che merita di essere portata a conoscenza è che tutti i cani usati nel film provenienti dai rifugi alla fine delle riprese sono stati adottati.

Alcune scene sono crude, “il lavoro con i cani richiede un’attenzione particolare e differente rispetto agli attori abbiamo usato le raccomandazioni dell’US-Guide facendo si che ogni scena sia stata un gioco per loro” dichiara lo stesso regista. Confezionato con un sapiente uso della Rapsodia Ungherese di Liszt, tema tra l’altro di Tom and Jerry, il film è un capolavoro. Incredibile la sceneggiatura dello stesso regista, di Viktória Petrányi e Kata Weber, ottima la fotografia di Marcell Rev, la scenografia di Márton Agh, la musica di Asher Goldschmidt e il montaggio di Dávid Jancso. Per non parlare del cast, con la sua giovane e promettente protagonista. Un film che va visto assolutamente perché apre gli occhi, disvelando le tante “marginalità”, cambia le prospettive invertendole, ci fa sentire meschini nel nostro egoista mondo umano e forse può lanciare un sasso o un grido di aiuto per chi non ha voce, quella che Jean Cocteau chiamava “La voce umana”.

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