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Cinespresso | April 19, 2024

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Uberto Pasolini: incontro con il regista di Still Life 1/2

Uberto Pasolini: incontro con il regista di Still Life  1/2
Francesco Di Brigida

In occasione dell’uscita in homevideo riportiamo l’incontro con la stampa del regista Uberto Pasolini, autore del sorprendente “Still Life”, un film da non tralasciare

Ambientato nella Londra attuale, Still Life è una piccola storia su un uomo timido e senza amici con un lavoro molto particolare: occuparsi dei funerali e delle pendenze di persone decedute in solitudine. L’investigazione su un ultimo caso prima del suo licenziamento per i tagli del comune lo porteranno a un’avventura inaspettata. Lo abbiamo raccontato per la sua uscita nelle sale a dicembre (per la recensione completa cliccate qui), e adesso che è disponibile in DVD (dal 22 maggio) pubblichiamo (in due parti) l’incontro con la stampa tenuto a Roma dal regista vincitore del Premio Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia, Uberto Pasolini.

Still Life è titolo multisemantico. Che cosa significa?

«Vuole dire tante cose: vita ferma. Still, nel senso che la vita del protagonista non si muove, almeno all’inizio del film. Però vuol dire anche ancora vita. Nonostante non si muova, è ancora vita: still life. Perché come tutte le vite, deve essere valorizzata per quella che è. E in ultima analisi è anche una vita d’immagini, dove still vuol dire anche fotografia in inglese. Diversi significati coerenti dunque, ma quello che per me ha più importanza è ancora vita. La stessa espressione inglese, in italiano diventa natura morta, ma la lingua anglofona gira il senso sulla vita. Ed essendo per me un film proprio su di essa, sul suo valore, e non sulla morte, secondo me è un titolo piuttosto buono, per il film».

Sembrava che il protagonista si stesse arenando, invece verso la fine

«Lo spunto visivo iniziale è stato quello di una tomba dimenticata. La tematica dell’isolamento sarebbe stata tradita da un finale classico, positivo… anche se questa strada mi era stata suggerita da qualcuno. Volevo invece che rispettasse il soggetto del film. Ma ho insistito per un finale ottimista, positivo, dove il valore del lavoro fosse riconosciuto dal film stesso, e non semplicemente solo dal pubblico che lo guarda».

Com’è nata la sceneggiatura?

«È cominciata dalla fine, e poi è stato scritto il resto. Non ho mai avuto dubbi su come avesse dovuto finire il film. Trovo il finale, giusto e corretto dal punto di vista drammatico».

Com’è ha scelto il lavoro del protagonista?

«Il problema di cosa fare con le persone morte da sole esiste dall’inizio dell’umanità. Anche nell’antica Roma qualcuno si occupava di raccattare i poveracci che morivano per la strada. È un mestiere che a Londra, in ogni comune ha una persona che si occupa di rintracciare le famiglie delle persone decedute in solitudine, e nel caso di fallimento della ricerca, che succede nella maggior parte delle volte, si occupano delle esequie al defunto. Quando nella storia lui viene licenziato e il suo comune viene dato a qualcun altro, ho riportato una cosa che ho visto durante le ricerche del film. Il funeral officer di Westminister si è dovuto occupare anche di comuni di Wandsworth, Kensington e Chelsea perchè avevano tagliato il personale. È un mestiere che esiste dappertutto, anche a Roma. È un problema comunale, di gestione locale».

Già conosceva questa realtà o com’è arrivato a scoprirla?

«Ho letto un’intervista su un quotidiano di Londra proprio al funeral officier di Westminister e ho iniziato una ricerca contattandolo. Poi mi sono legato al lavoro di due comuni molto poveri e molto grandi a sud del Tamigi: Southwark e Lewisham. Li ho seguiti per sei mesi facendo varie visite nelle case dove persone sono morte da sole e ho presenziato a molti funerali o cremazioni. E a volte ero solo, perché a volte neanche l’officer non ha il tempo di esserci. Quello che vedete nel film è poco inventato. La storia della signora che viveva col gatto, per esempio, è quella della prima persona che ho visitato, la prima casa abbandonata».

Anche le cartoline?

«Anche le cartoline, anzi le fotografie. Ho poca immaginazione, per cui ho bisogno di rubare alla realtà di tutti i giorni dei momenti che mi sembrano significativi o che mi toccano in particolare».

Sembra che il protagonista ci metta qualcosa di più di quello che è il mestiere.

«Durante quest’anno di ricerche ho conosciuto una trentina di queste persone. La maggior parte di loro vive il lavoro in maniera molto burocratica. Alcuni hanno invece un sentimento molto forte del valore umano nel loro mestiere, dedicando più tempo del dovuto al ricordo di queste persone. Il personaggio è una condensazione di due o tre officer che ho realmente conosciuto a Londra. La personalità di solitario, di ossessivo è la mia, ma il modo in cui affronta il lavoro è preso dalla realtà. Esistono davvero impiegati che si occupano di questo commiato positivo, del ricordo di persone dimenticate spesso in tombe collettive, poiché le ceneri vengono mischiate, e dei defunti rimane traccia soltanto in grandi albi comunali».

Come funziona il rapporto tra amici e conoscenti?

«Le cifre inglesi sono queste: per il 70% non si trovano familiari. Il 20% non vuole avere a che fare con i defunti, così soltanto il 10, certe volte composto da un solo amico, si fa coinvolgere. Gli impiegati addetti sono quindi tenuti a occuparsi delle esequie per il 90% dei casi».

Continua…

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