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Cinespresso | March 28, 2024

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La Dolce Bellezza di Sorrentino tra Oscar e Golden Globe

La Dolce Bellezza di Sorrentino tra Oscar e Golden Globe
Francesco Di Brigida

L’Academy Awards nomina La grande bellezza tra i candidati agli Oscar. Bellezza e dolce vita, ma non troppo, di un grande film

Pochi giorni fa la piacevole notizia per la vittoria del Golden Globe come Miglior film straniero, e ora la candidatura all’Oscar per la stessa categoria. La grande bellezza di Paolo Sorrentino, accompagnato da quel misto e disordinato tambureggiare mediatico di spettatori incantati, spallucce, attestati soddisfazione, critiche sulfuree, dichiarazioni di meraviglia e accuse di plagio al regista campano che aveva circondato prima la proiezione di Cannes e poi l’uscita nelle sale è tornato tutto insieme in una bagarre francamente piacevole. È sempre un bene quando un’opera fa discutere. Scatena gli animi, colpisce l’immaginario scuotendo le idee, anche se provoca qualche scontro. Vuol dire fermento. Vuol dire vitalità, infusa anche dalla pellicola, in questo caso.

Superati i concorrenti Sorrentino aveva agguantato la prima statuetta il 12 gennaio. In questa prima corsa ha battuto La vita di Adele di Abdellatif Kechiche, Il sospetto di Thomas Vinterberg, Il passato di Asghar Farhadi, Si alza il vento di Hayao Miyazaki. Per la Notte delgli Oscar del 2 marzo invece se la dovrà vedere con The Broken Circle Breakdown di Felix Van Groeningen, dal Belgio,  The Missing Picture di Rithy Panh, dalla Cambogia, Omar di Hany Abu-Assad, dalla Palestina, e di nuovo con il danese Il sospetto.

La dolce vita è il film al quale è stato prontamente paragonato La grande bellezza. I protagonisti sono due giornalisti. Vite dissolute entrambe. Nottambule e popolate da animali sociali d’ogni sorta. Classe benestante e nobiltà romana specialmente. Marcello è giovane e smaliziato, ha un romanzo da pubblicare, una compagna, molte amanti e paparazzi per fidi destrieri. Jep ha sessantacinque anni invece, ha un unico romanzo d’esordio, esplosivo, risalente a più di tre decenni fa, una domestica compagna di chiacchiere, molti fortuiti incontri amorosi e una ristretta cerchia di amici. Ma è solo l’inizio, perché Sorrentino sembra prendere una miriade di elementi della Dolce Vita per rimescolarli e lanciarli nell’arena di una Roma ricca e patetica all’alba del terzo millennio.

“Dunque è regola fondamentale, ad un funerale non bisogna mai piangere, perchè non bisogna rubare la scena al dolore dei parenti. Questo non è consentito. Perché immorale”

La morte è il vero tabù dell’edonista, e la dritta di Jep Gambardella a una trasognata Sabrina Ferilli è uno degli elementi religiosi e morali del film, insieme alla Santa. Nel lavoro di Federico Fellini sono invece il circo dissacratorio per l’apparizione della Madonna e il folle infanticidio di Steiner. Vivono nelle due pellicole l’arte e la contemplazione del bello, tra mostre, gallerie e performance. Più didascalico in Sorrentino per via dei lunghi voice-off, ma sempre di grande impatto. L’orgia finale felliniana diventa rito da discoteca, iniziale, durante una festa in terrazzo per il regista delle Conseguenze dell’amoreThis must be the place.

Lo stesso Romano di Carlo Verdone è un Flaiano capovolto. Autorucolo bistrattato dalle donne il primo, genio, autoripudiato per forza intellettuale, e dalla ineguagliata suadenza nella scrittura il secondo. Ci sono molte altre similitudini, mescolamenti, forse omaggi più o meno inconsci, ma la magia sta nel fatto che seppur diabolicamente (per i più maliziosi), o splendidamente simili (per i favorevoli), La grande bellezza e La dolce vita sono film diversissimi. Non soltanto per qualità, ma per spirito del tempo. In una visione d’insieme diventano quasi complementari. Uno l’involuzione dell’altro nelle immagini che creano di due società distanti decenni. Due visioni legate dalla storia nel reale, e da Roma sulla celluloide. Il plagio? Si viaggia sul filo, questo sì. Ma quanto grande cinema ha proliferato in questo modo? Per non parlare dell’arte, poi.

Una considerazione: Quentin Tarantino  ha deframmentato e rielaborato un cinema bastardo e senza gloria, quello dei b-movies, dello spaghetti western e del poliziesco ricevendone oro e incenso globali, mentre il peccato capitale di Sorrentino starebbe nell’aver fatto lo stesso, ovviamente alla sua maniera, prendendo però soltanto da un capolavoro assoluto. Quindi un sacrilegio, per i cinephile più conservatori. Un solo film. Una cinematografia da tante cinematografie contro un film da un altro film insomma. E che film. Doppio sacrilegio allora! È forse questo il gap di Sorrentino. L’intoccabilità midollare di certe pellicole consegnate al mito, o la sensibilità di certo pubblico.

“Ma si, ha ragione lei. Sto sbagliando tutto. Stiamo sbagliando tutti”

Lo sussurra tra sé e sé Marcello Mastroianni mentre si avvia a entrare nella Fontana di Trevi. L’incertezza giovanile, quella fragilità imprevedibile che offre aria, freschezza, speranza, sogno, in Jep diventa lucida quadratura dei pensieri. Seppur moderno viveur, lui è vecchio, e ha la coriaceità e la saggezza spuria di un suo pari. I due, a volerli proprio vedere vicini, sono facce di una stessa medaglia. Fellini raccontò il boom, Sorrentino dipinge il tonfo. L’ascesa e la picchiata di una classe rispecchiate in due uomini, due distinti flaneur. E adesso possiamo tifare Italia alla Notte delle Stelle. Peccato non siano più in vita Fellini e Flaiano. Chissà cosa ne avrebbero detto.

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