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Cinespresso | April 25, 2024

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Giulio Cesare a Rebibbia: una prova aperta

Giulio Cesare a Rebibbia: una prova aperta
Valeria Brucoli

“Libertà! Libertà!” Questa parola, urlata a squarciagola dai detenuti della Sezione G12 Alta Sicurezza della casa circondariale di Rebibbia, attraversa come la lama di un pugnale i corpi degli spettatori, e trapassa le pareti blindate del teatro austero dove si svolge lo spettacolo.  Il desiderio di libertà spinge forte contro l’acciaio delle pareti di quel luogo che la libertà la nega, che è l’antitesi della libertà, e idealmente le abbatte con il peso schiacciante dell’arte.  L’arte è l’arma più potente nelle mani di chi è chiuso al mondo esterno, perché permette di ricrearlo in ogni spazio, che sia una cella o un teatro, e di scomporlo e ricomporlo in base alle aspettative e ai sogni dei suoi artefici.

Il palcoscenico del teatro di Rebibbia è il mondo in cui gli attori del Giulio Cesare di Shakespeare trovano una nuova identità, non più criminali, non più detenuti, ma solo attori, colpevoli dell’unico omicidio che si consuma sulla scena per il tempo dello spettacolo, quello di Giulio Cesare. Le mani dei cospiratori sono intrise del suo sangue, le loro bocche invocano giustizia e libertà contro l’ambizione e l’oppressione del re tiranno.  I dialetti di tutte le regioni d’Italia si confondono e si sovrappongono in un unico grido unanime: libertà! L’uomo comune ha fatto propri i versi Shakespeariani e se li è cuciti addosso con incredibile naturalezza, vestendo gli eroi romani di una dimensione umana e terrena, in cui la polvere delle strade si impasta con il sangue della congiura, del tradimento, e della vendetta.

La messa in scena di Fabio Cavalli, con il suo linguaggio semplice e variegato segue le intenzioni del testo drammatico shakespeariano, che non mira a celebrare gli eroi romani e le loro grandi imprese, ma i sentimenti e le pulsioni dell’uomo comune, i conflitti e le ambiguità universali che superano i fasti della storia romana e raggiungono il nostro tempo intatti, vivi. Il dialetto non solo non riesce in alcun modo a sgualcire i versi originari, ma gli conferisce una vita nuova e pulsante, su un palcoscenico in cui a declamare Shakespeare è l’uomo comune, che affida se stesso e i suoi sentimenti all’arte. Senza indossare maschere e costumi di sorta, gli attori portano esclusivamente i loro corpi su un palcoscenico spoglio, essenziale, in cui c’è più spazio per la realtà che per la finzione.

Dopo tutto questo Giulio Cesare è una prova aperta più che uno spettacolo compiuto. I copioni in bella vista, l’improvvisazione, il rapido cambio di attori, e l’inserimento all’ultimo momento di scene inedite lo dimostrano, trasformando questo spettacolo in un laboratorio unico, in una fucina inarrestabile di idee, in cui il regista e gli attori sono sullo stesso piano, interscambiabili, e sempre pronti a proporre, a modificare e a rielaborare il testo in itinere, per renderlo sempre più vivo e accessibile ai suoi interpreti.

Questa continua sovrapposizione di via e teatro, realtà e finzione, ha dato vita a Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani che ha aperto al mondo del cinema le porte di Rebibbia, entrando con discrezione nella vita quotidiana dei detenuti durante le prove e la messa in scena di questo Giulio Cesare (dove fra gli astanti ritroviamo lo stesso Vittorio Taviani). A partire dalla nascita del progetto teatrale, ideato dal regista Fabio Cavalli, l’obiettivo dei fratelli Taviani ha seguito la crescita e lo sviluppo dello spettacolo, che ha travalicato i limiti spaziali del teatro di Rebibbia per sconfinare nelle celle e nei dialoghi notturni tra i detenuti, che hanno fatto propri i versi shakespeariani, assorbendoli e traducendoli nella lingua che gli era più congeniale.

Come un’eterna prova aperta il testo si è modellato su suoi interpreti, e si è trasformato nel tempo, arricchendosi di nuovi personaggi e di nuovi linguaggi, dal teatro di Shakespeare al teatro di Rebibbia, dal film alla vita reale, senza perdere autenticità, e mostrando ancora una volta quanto sia sottile il limite tra vita e teatro. Nello spazio immaginario dell’arte, l’uomo comune è finalmente libero di essere chi desidera, che sia un attore, un re o un eroe, e di vivere la vita che ha scelto, riscrivendo il copione della sua vita ogni giorno, fuori dalle mura della cella in cui lo ha confinato la sua storia.

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