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Cinespresso | April 25, 2024

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Il teatro di Jonathan Demme: “Fear of falling”

Il teatro di Jonathan Demme: “Fear of falling”
Francesco Di Brigida

Review Overview

Cast
8
Regia
7.5
Script
8

Rating

Una bella dimostrazione di come un testo teatrale giudicato superficialmente "pesante" da chi non conosce o non gradisce la bellezza delle parole, ma carico invece di vita e spunti sulla umana complessità, può diventare cinema. Buon cinema.

Anno: 2013 Durata: 127′ Distribuzione: Unknown Genere: Drammatico Nazionalità: Usa Produzione: The Ibsen Project, Clinica Estetico, Westward Productions Regia: Jonathan Demme Uscita: Unknown

Arriva dal teatro di Ibsen il nuovo lavoro del Premio Oscar Jonathan Demme, presentato in anteprima mondiale al Festival Internazionale del Film di Roma

Il film apre con una fotografia assolata e rassicurante che accarezza i profili decisi e slanciati di ville di lusso. Veri e propri manieri d’orgoglio per il costruttore Halvard Solness (Wallace Shawn). Il ricco e potente sessantenne è malato e non vivrà a lungo. Circondato dalla famiglia, la moglie Aline (Julie Hagerty), il talentuoso figlio Ragnar (Jeff Bihel) e Knut Brovik (André Gregory), anziano architetto e dipendente della gloriosa ditta di Solness, il costruttore vede comparire all’improvviso una giovane che minerà tutto il suo equilibrio, insieme a quello familiare. Si tratta di Hilde (Lisa Joyce), che conosciuto l’uomo dieci anni prima, ed essendo del tutto dimenticata da lui, le confessa il sentimento che ha portato con sé per anni.

Jonathan Demme realizza un progetto ardimentoso: portare in pellicola un grande testo teatrale di Henrik Ibsen, Il costruttore Solness. Adattato già per il palcoscenico da Shawn, qui anche protagonista e sceneggiatore, attraverso il lavoro di Demme la parola tra le quinte si traduce in immagini filmiche per i fitti dialoghi dei protagonisti. Film paragonabile al Carnage di Polanski, Fear of falling è una gemma testuale e interpretativa. La regia è poco invasiva, apparentemente assente, ma in realtà vigile sostegno al tutto, lasciando allo spettatore la sensazione di assistere a uno spettacolo dallo miracolosamente più profondo, fino a diventare palco. È un cinema anti-action, questo. Non ci sono cannibali psicopatici. E neanche malati di Aids, o vedove allegre.

“Uno di questi giorni mi chiederà di farmi da parte. E quel giorno sarà la fine”

È una frase che sussurra Solness alla moglie parlando di uno dei suoi collaboratori, suo figlio, che vuole sempre relegare in seconda linea per paura di essere sopraffatto, di non essere più il migliore. Dramma esistenziale dell’ego e delle paure di un uomo speronate dalla comparsa di un sentimento inatteso e impossibile, stretto dal tempo alla fine della sua vita e successivamente sopraffatto dal passato e dai rimorsi, il protagonista è affiancato da una vibrante Julie Hagerty, volto di sua moglie e dalla grande spalla, anche dai palcoscenici di BroadwayAndré Gregory. La presenza di Hilde/Joyce invece, decide i colori che sconvolgono la vita del costruttore. L’attrice è sensuale, ma eterea, sfuggente e indifesa predatrice, irregolare nei lineamenti e argentina nella risata, in versione originale.

Una bella dimostrazione di come un testo teatrale giudicato superficialmente “pesante” da chi non conosce o non gradisce la bellezza delle parole, ma carico invece di vita e spunti sulla umana complessità, può diventare cinema. Buon cinema. Ovviamente si veleggia verso i margini di un cinema “commerciale”, ma questo pensiero potranno smentirlo i numeri in futuro. Ciò che qui colpisce, sempre restando nella metafora marinaresca, sono invece le vele, l’andatura, la sontuosità di una pellicola fiera della quale il testo s’impossessa, vincente.

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