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Cinespresso | April 16, 2024

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Intervista esclusiva a Marco Visalberghi 1/3

Intervista esclusiva a Marco Visalberghi 1/3
Eugenio Murrali

Con generosità e simpatia si racconta ai lettori di Cinespresso Marco Visalberghi, managing director di DOCLAB e produttore di Sacro Gra, il documentario di Gianfranco Rosi in concorso alla Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Prendiamo l’abbrivo dalle origini della tua passione. Quando e come nasce questa vocazione per la pellicola?

Se davvero volessi fare riferimento a una ‘vocazione’, dovrei forse raccontare che all’età di dodici o tredici anni mi hanno regalato una 8 millimetri a molla con la quale insieme a un mio amico abbiamo girato un famoso film: si chiamava La legge del West, aveva persino i titoli che prendevano fuoco e noi eravamo travestiti da cow-boy.

La verità è che molto è stato determinato dal caso. Al mio professore del liceo, Enzo Siciliano, offrirono di fare la regia della trasposizione cinematografica di un suo romanzo: La coppia. Poiché in quel periodo tra noi c’era un bel dialogo, Siciliano mi propose di collaborare come assistente dell’assistente, dell’assistente… cioè come colui che, di fatto, va a comprare le sigarette per il set. Come credo tutti i ragazzi di quell’epoca, ero affascinato dalla macchina cinematografica e ho accettato; era la metà degli anni Sessanta.

Dopo quest’esperienza e una breve parentesi politica, ho avuto la fortuna di incontrare un dirigente RAI intelligente, Giovanni Tantillo, che mi offrì di realizzare alcuni servizi per la rubrica culturale del giovedì sera, Almanacco delle arti e delle scienze, su RAI1, che poi era l’unico canale di quegli anni, in cui potevamo avere anche tredici milioni di spettatori. E lì, pur con la sola esperienza di assistente al cinema, sono stato promosso regista sul campo e ho girato dei servizi sul design italiano dell’epoca, sui porti turistici e tanto altro.

L’anno successivo la rubrica è stata soppressa e Sergio Borelli, che la curava, è finito a TV7, programma di vaga area socialista in cui si facevano inchieste giornalistiche di approfondimento. Mi ha portato con lui. Lì ho conosciuto giornalisti importanti con i quali ho collaborato e da cui ho ricevuto una grandissima scuola.

È stato affascinante lavorare in una televisione in cui il lunedì mattina si facevano le riunioni di redazione per andare in onda il venerdì sera. Tutto si girava in pellicola invertibile per uno o due giorni e quasi sempre si finiva per fare la nottata tra il giovedì e il venerdì per riuscire a montare. È stato un momento elettrizzante e entusiasmante della mia vita. A me, ragazzino, avrò avuto 21 anni, sembrava di stare in quei film come Prima pagina, in cui c’è la redazione del giornale, tutti lavorano insieme, si aiutano.

Successivamente è nato il secondo canale, ho girato per trasmissioni RAI di diverso genere, ma di lì a poco ho conosciuto Piero Angela e ho iniziato a lavorare con lui con regolarità, ormai è il trentaquattresimo anno, da quando è nato Quark, oggi Superquark.

Un lungo capitolo della tua carriera è rappresentato dalla realizzazione di documentari naturalistici.

Ho sempre avuto una grande passione per gli animali. Mentre continuavo a collaborare con Piero, il già citato Giovanni Tantillo si fece convincere dall’idea di mettere in piedi una rubrica sulla natura italiana e me ne affidò la realizzazione. Per tre anni e mezzo, quasi quattro, abbiamo portato avanti questa avventura. Il programma si chiamava Pan. Storie naturali – dall’ ’85 all’ ’87 – ed è stato il primo, e direi anche l’unico, esperimento finanziato dalla RAI di un gruppo di documentaristi specializzati in riprese naturalistiche.

È stato un momento magico, perché si sono riunite intorno a questa operazione persone piene di talento e professionalità. Ricordo Nando Armati, che faceva dell’ottima macrofotografia sugli insetti, ricordo Giancarlo Pancaldi, Daniele Cini, Francesco Petretti, Pippo Cappellano, Andrea Guarnieri, Susanna Tamaro, Ugo Adilardi, Piero Tartagni, Antonio D’Onofrio e tanti altri giovani appassionati. Finita questa esperienza, convinsi ancora una volta Giovanni Tantillo, persona cui voglio molto bene – oggi purtroppo scomparso –, a far partecipare la RAI a una serie di documentari di natura coprodotti a livello internazionale e girati qua e là per il mondo. Così è nata Professione natura, una serie di pezzi da 50 minuti. Il primo – del 1990 – ha ricevuto un finanziamento iniziale dalla RAI, e il resto lo abbiamo messo noi in prima persona: era una storia sulle scimmie rhesus a Cayo Santiago.

Grazie a questo primo lavoro siamo riusciti a lanciare delle coproduzioni con BBC, National Geographic, Nature Thirtheen. Per poter produrre questi documentari ho fondato con Ugo Adilardi e Piero Tartagni la società di produzione Paneikon. È stato un periodo appassionante, ci ispiravamo alle grandi produzioni naturalistiche della BBC che in gergo venivano detti ‘Blue Chips’. Sceglievamo un animale e un luogo da raccontare e ci passavamo diversi mesi, spesso ripartiti nell’anno, per osservare e filmare comportamenti animali che non fossero mai stati studiati o descritti prima in quel modo. Passavamo ore a seguire quegli animali, a cercare di riconoscerli individualmente, ad abituarli alla nostra presenza. Spesso ci basavamo anche su studi di scienziati, e di etologi e grazie a loro scoprivamo mondi straordinari: il comportamento animale è stato per me uno dei maggiori insegnamenti di vita, una chiave di interpretazione del mondo.

Una delle soddisfazioni maggiori la vivevamo quando durante il montaggio i ricercatori, riguardando con noi le immagini, scoprivano qualcosa di cui non si erano mai resi conto in precedenza. Il nostro teleobbiettivo era riuscito a cogliere aspetti sfuggiti ad anni di osservazioni sul campo.

Quali sono state le ragioni della fortuna di questi documentari sulla natura? Quali le intuizioni positive?

In Italia, negli anni Quaranta-Cinquanta andava in onda un programma decisamente rappresentativo del modo comune di vedere gli animali e la natura. Si chiamava L’amico degli animali, un programma condotto da Angelo Lombardi, che era sostanzialmente un cacciatore bianco (e come tale era vestito) con un servitore nero che si chiamava Andalù. Lombardi stava in uno studio televisivo e diceva: «Andalù, porta il pitone!». Andalù arrivava con il pitone e Lombardi lo prendeva in mano, mostrava con imperio come manipolarlo e gestirlo, ma di scientifico-comportamentale non c’era nulla o quasi. Noi volevamo uscire da questo tipo di cultura e ispirarci invece alle grandi scuole etologiche di quel periodo: penso a Konrad Lorenz, Nikolaas Tinbergen, Floriano Papi, che avevano invece cominciato a osservare gli animali stando fermi, zitti, nascosti dentro un capanno, lasciandoli agire per come sono, per poter interpretare e capire i comportamenti. Una rivoluzione copernicana.

Quando noi abbiamo iniziato, era il momento in cui la grande tradizione del documentarismo naturalistico di osservazione era in piena espansione. Quello è un pezzo della mia vita passata che mi manca da morire. I mesi passati con gli ippopotami nel Seoul, l’orso nero americano, i leoni di mare in Patagonia…

Dopo la Paneikon, nasce l’avventura di DOCLAB.

Sì, siamo intorno al 1999 e da una parte già con Paneikon avevamo allargato i campi di interesse, per non fermarci solo ai temi naturalistici, anche perché era cominciato un periodo in cui il racconto naturalistico iniziava a essere “inquinato” da una presenza umana troppo ingombrante. Io preferisco il documentario che guarda gli animali in una natura incontaminata e basta, mentre invece in quegli anni cominciavano ad andare di moda delle specie di‘ Indiana Jones’ che afferravano i coccodrilli per la coda e infilavano la testa nelle fauci per dimostrare il loro coraggio.

Finita l’avventura con Paneikon, forse avendo anche esaurito l’entusiasmo verso i nuovi modelli a cui si ispiravano i documentari naturalistici, e pur non misconoscendoli del tutto, ho fondato DOCLAB, con la quale ho iniziato a produrre e realizzare documentari storico-scientifici.

Il primo documentario era dedicato a Venezia: Venice the sinking city (2001). Una ricca coproduzione con diversi partner internazionali.

Continua…

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