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Cinespresso | April 19, 2024

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Intervista con Christian Iansante, la voce di Bradley Cooper 2/2

Intervista con Christian Iansante, la voce di Bradley Cooper  2/2
Francesco Di Brigida

Continuiamo la nostra chiacchierata con Christian Iansante in un tiepido pomeriggio romano. Dal divanetto della sala di doppiaggio, la voce fuori controllo dello Zoo di 105, di Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas, di Brad Pitt in Una vita al massimo, di Sindrome, il supercattivo de Gli Incredibili e del Christian Bale di Velvet Goldmine, parla dei talent (le voci di attori italiani di grido utilizzate per doppiare film, anche di animazione, ndr), della cucina della sua regione e dei suoi gusti gastronomici.

Parliamo dei talent. Cosa credi che diano in più o in meno al doppiaggio, oltre che agli ovvi fuochi d’artificio prodotti dai nomi, dal marketing?

«Il fuoco d’artificio del marketing è fondamentale, quindi danno moltissimo. Io non sono mai stato contrario a questo tipo di scelta. Non mi sento di criticarla perché è completamente commerciale e la condivido appieno. Se poi parliamo della prestazione è chiaro invece che i talent fanno un mestiere che non è il loro. Se io venissi chiamato a giocare una partita della Nazionale farei solo danni. Ma se insistessero, perché dire no? Perché dovrebbero dire no i talent? Vengono pagati benissimo, hanno la possibilità di giocare e divertirsi. Non ce l’ho con loro. Semmai è colpa dei doppiatori che si lamentano, perché se decidessero invece di non lavorare in nessun film dove è presente un talent o doppiarlo solo sotto determinati compensi, probabilmente quel film verrebbe ridiscusso dalla distribuzione. O si rinuncia al talent, o si pagano di più i doppiatori. Sinceramente un talent che fa un film in un anno non porta via lavoro ai doppiatori. Saranno cinque ruoli all’anno, mentre il doppiaggio è fatto di migliaia di ruoli all’interno anche di serie televisive, di prodotti radiofonici, di pubblicità, di documentari».

Sei di origine abruzzese, una regione che a tavola si è sempre fatta  valere. Qual è il tipo di cucina che preferisci?

«Io amo molto la cucina creativa, ma di abruzzese mi piacciono la pasta e fagioli. Che in dialetto sono “sagn’ e fasciule”. Se fatte bene mi piacciono molto, e anche i ravioli di ricotta. Sono molto eleborati e pesanti ma sicuramente non si può dire che non siano cose buone. Non ricordo tanto i secondi della cucina abruzzese invece, mi sembrano abbastanza scontati. Però preferisco le salsicce sott’olio e quelle fatte alla brace. Per me sono importanti i prodotti di base. Comunque sul podio metto al primo posto le sagne e al secondo i ravioli».

Quando ti trovi in una città che non conosci, che tipo di ristorante scegli?

«Entro sicuramente per trovare una cucina del luogo. In Irlanda ho cercato piatti irlandesi, in Inghilterra ho mangiato british. Magari in Francia ho avuto più scelta per la varietà delle ricette. Credo che la cosa tipica del luogo così come è stata inventata, non la mangi nello stesso modo in nessun altro posto al mondo. Girarlo cercando la cucina italiana è davvero da pazzi. Spinto da altri l’ho dovuta provare certe volete, a Bucarest e a Viena ricordo, ma è stata sempre pessima. La stessa cosa vale per l’Italia. Se vado in Emilia pretendo un Lambrusco del luogo, non quello pompato con il gas finto, e mangio il vero ragù bolognese o i cappelletti. Mi piace sperimentare la cucina del territorio».

E con la cucina creativa in che rapporti sei?

«Parlo del salto della creatività che è soltanto dove ci sono stelle e forchette rosse. Io ho girato molto per gli stellati d’Italia perché forse questo è il mio unico hobby. Io cerco delle vere e proprie esperienze. A tavola un’esperienza può durare anche tre o quattro ore. Non m’importa se spendo anche 150 euro a testa perché penso che valga la pena. Ci sono persone che spendono 250 euro per vedere una partita di 90 minuti e magari perdono, pensando che sia una buona spesa. Poi se gli dici che ne spendi 150 per mangiare si stupiscono. Per me vale il contrario. Non spenderei mai 250 euro per una partita, ma ne spendo 180 per mangiare. Naturalmente non tutti i giorni, ma sono cose che mi piace condividere. Anche con mia figlia, che negli anni ha sviluppato un certo palato. E soprattutto con gli amici che sono appassionati di cibo, di vino, dove mentre si mangia se ne parla. Lì sì che diventa esperienza».

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