Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

Cinespresso | April 24, 2024

Scroll to top

Top

No Comments

Nicolas Wending Refn, il candido regista della violenza 2/2

Nicolas Wending Refn, il candido regista della violenza 2/2
Francesco Di Brigida

Riprendiamo con la seconda parte della presentazione di Solo Dio Perdona – Only God Forgives nelle parole del suo regista Nicolas Winding Refn, in Italia per promuovere la pellicola che ha scosso Cannes.

L’autore scandinavo tiepido nelle movenze e risoluto nelle scelte creative si è scoperto come aficionado alla domanda sull’influenza di Alejandro Jodorwsky – poliedrico regista cileno di un cinema visionario e immaginifico. «Credo che Jodorowsky sia uno dei registi più influenti del cinema, anche molto più di quanto la gente non sia consapevole. Un po’ come Kenneth Anger, credo che abbiano avuto più influenza di quanto si possa immaginare. Però anche  John Ford o Jean-Luc Godard hanno esercitato un’influenza più forte di quanto non se ne riconosca. Negli anni ‘90 le videocassette erano l’unico canale per conoscere i film più sconosciuti da canali oscuri, e Jodorowsky per me era una specie di leggenda. Per me il suo era un modo di fare cinema, e poi la sua fruizione andavano quasi contro le leggi della cinematografia.  Poi sono riuscito a vedere El topo e The Holy mountain. Era quello il punk rock. Era quello il cinema che volevo fare. Non erano film, ma vere proprie esperienze.  Andava oltre quello a cui eravamo abituati.. una forma mentis completamente diversa. C’era una struttura non lineare, a episodi, come in Solo Dio perdona, momenti diversi che insieme creano la storia, ma non è una costruzione  classica, è molto di più. È come entrare nella mente di una persona e vedere ciò che vede, in una sorta di significato senza fondo con un enigma che continua a crescere». E andando avanti su quella che sembra quasi un’adorazione alla Tarantino ha continuato: «Ogni tanto, quando sono in una posizione troppo comoda mi chiedo cosa avrebbe fatto adesso Jodorowsky? E ho finito per fare anche delle cose abbastanza ridicole», strappando una risata alla sala.

C’è stato modo di parlare anche di Kristin Scott Thomas e della sua partecipazione. L’attrice voleva da tempo lavorare con Refn, e mentre lui era alla ricerca di un volto femminile sconosciuto perché avendo sempre un basso budget a disposizione non poteva permettersi di pagare molto, si sono incontrati a Parigi. «La conoscevo nei ruoli classici dove interpreta la donna fragile, l’aristocratica. Ma dall’inizio della cena mi resi conto che a trasformarsi nella strega stronza non avrebbe avuto nessun problema», facendo guizzare la sala. Poi è andato avanti seraficamente. «È una donna anche molto sexy. Essendo un film che parla del rapporto tra madre e figlio, ha un ruolo molto stratificato complicato, con tanti livelli. Lei mi ha detto non le piacevano film violenti, che non vedo cose estreme, e che è una donna di mezza età che vive a Parigi, le piace leggere cose in stile Oscar  Wilde. Ma era pronta a provare qualcosa di completamente diverso. Al che  ho detto: “Fantastico va bene, non ti pagherò molto però”. E lei: “Ok, ma per questo ruolo devo cambiare completamente”. Così m’inviò una foto con i capelli biondi e lunghi e io ho detto “Salve Donatella Versace!”.  E da lì siamo partiti per costruire questo personaggio al quale lei ha dedicato tutta se stessa».

Un’altra domanda, un po’ più impertinente sulla sua espulsione dall’American Academy of Dramatic Arts per aver scagliato una scrivania contro un muro e sull’essere un ribelle oggi piuttosto che a 24 anni col suo primo lungometraggio ha risposto: «Diciamo che ho un radicato odio nei confronti dell’autorità. E ancora lo conservo. Credo che il nemico della creatività sia il buon gusto. Ancora la voglio rovesciare quella scrivania. Il lato punk lo conservo. Con gli anni ho un aspetto migliore di quanto non avessi a 24 anni. Sono più furbo ,  più intelligente. Credo si debba continuare a conservare quelle parti, e soprattutto se si vuole lavorare nel mondo dell’arte non bisogna mai perdere quella scintilla, quel bisogno di creare, di ispirare anche attraverso il fracassare le cose. Quando ho fatto il mio primo lungo l’ho fatto con l’arroganza tipica della giovane età. Quello è un modo fantastico per cominciare».

E in chiusura la domanda di Cinespresso sull’uso della macchina da presa sulle mani di Ryan Gosling.

Le mani di Julian/Gosling appaiono legate, in guardia, sporche di sangue, immobili sui suoi jeans, tra le gambe di Mai, sul terreno tra le foglie. Immagini di grande peso visivo. Cos’hanno significato per lei?

«La prima idea che ho avuto per il film è l’immagine di qualcuno che fissava le proprie mani, proprio come Julian. Non avevo idea del suo significato ma mi sembrava una bella immagine per il film. Poi però mentre giravo mi sono reso conto che il discorso delle mani ha a che fare con la specie maschile e con l’aspetto della violenza nel maschio. Se a un uomo togli  le mani è come se lo privassi del suo istinto violento perché poi non può far più nulla. C’è anche questo aspetto della sottomissione che è presente nelle mani. Quando si prega, si mostrano le proprie mani. Attraverso le mani si fanno gesti che rappresentano qualcosa di sacrificale. Io ho sempre avuto una piccola ossessione delle mani. Quand’ero ragazzino pensavo sempre a proteggermele se mi trovavo in una situazione di pericolo. Oltretutto hanno una certa analogia con l’organo maschile. C’è questa specie di trasmissione dalle mani: si può mostrare o rappresentare l’impotenza, la castrazione o anche l’eccitazione sessuale attraverso di esse. E poi, che ci piaccia o meno, e questo devono capirlo soprattutto le donne, l’uomo vorrebbe sempre un po’ tornare nel grembo della propria madre. Anche se non lo ammetterà mai. E a me interessava il concetto delle mani di Julian come mani maledette».

Submit a Comment